Non è “un metodo per rilassarsi”. Nel 1975 Herbert Benson con The Relaxation Response introdusse quella che di fatto è una pratica meditativa nel mondo della Harvard Medical School: fu l’inizio di una medicina diversa, in cui mente e corpo sono finalmente considerati interconnessi, parti distinte nominalmente di un tutto funzionale. Egli scrive: “il nostro usuale modo di pensare è caratterizzato da preoccupazioni nei confronti di eventi che accadono fuori di noi. Attraverso i nostri legami emotivi, i sentimenti sociali, le credenze, i contatti sensoriali, noi orientiamo costantemente i nostri pensieri verso fattori esterni [1975, The relaxation response,109]. La pratica del rilassamento profondo conduce una persona a quietare questa spinta alla attivazione senza sosta e invita ad acquisire uno stato di coscienza differente rispetto a quello della vita quotidiana. Praticando la mindfulness può capitare di rilassarsi ma non lo si persegue come obiettivo.
Non è ”svuotare la mente”. La mindfulness non svuota la mente, anzi opera all’opposto per rendere una persona quanto più recettiva.
Non è “va dove ti porta il cuore”, che sarebbe vivere guidati dalle emozioni e non guidando le emozioni.
Non è “ritirarsi dalle relazioni”. Familiarizzarsi con le proprie emozioni, sentimenti, pensieri non vuol dire ritirarsi in essi rifuggendo dai coinvolgimenti: si tratta di ri-bilanciare le esigenze che vengono dall’esterno con quelle che vengono dall’interno. Siamo parte di coppie, famiglie, gruppi, istituzioni, siamo dentro una fitta trama di relazioni: Safran e Muran [2000] hanno messo in evidenza come usare la pratica per ricomporre le inevitabili rotture dell’armonia relazionale. L’impegno verso gli altri è centrale per la tradizione della meditazione di consapevolezza.
Non è “un trucco per evitare le esperienze spiacevoli”. Pain is inevitabile, suffering is optional: la lapidaria espressione di Haruki Murakami ricorda che se il dolore è inevitabile, la sofferenza dipende in gran parte dal modo in cui ci si rapporta all’esperienza negativa che ci ha colpito. Ed è su questa modalità di risposta che lavora la mindfulness, nulla di più, nulla di meno.
Non è “un invito alla conversione ad una religione”. La mindfulness nasce proprio dalla possibilità di fruire delle pratiche di consapevolezza e di presenza senza la cornice spirituale e religiosa entro cui è peraltro fiorita.
Non promette “una magia” del tipo “una settimana…e passa tutto”: ci vuole tempo, dedizione, pazienza. Più si da alla pratica, più rende. Questo non vuole dire che non basti anche solo una seduta di pratica per sentire degli effetti positivi: è uno dei tanti paradossi della meditazione.
Non è “autoindulgenza”. È invece imparare a guardare a sé stessi esattamente per quello che si è ed accettarsi pienamente, creando “un attaccamento sicuro con noi stessi” come base per il vivere. Solo a quel punto si può cambiare. L’esperienza di una accettazione incondizionata da parte di una persona empatica e congruente, come osservava Carl Rogers, può condurre a sanare emotivamente disagi psichici: si tratta con la mindfulness di rivolgere la medesima accettazione incondizionata a noi stessi come persone, non certo alle nostre modalità adattative (di tipo compiacente o confrontativo fino al limite dell’antisocialità) che sono tentativi disfunzionali di maneggiare originarie esperienze di non accettazione.
Non è “una forma di psicoterapia”. La pratica meditativa favorisce lo sviluppo del benessere, ma quando le ferite psicologiche sono profonde non è indicato ricorrere alla mindfulness come fosse una psicoterapia.